Cancellate dalla memoria tutto quel che avete sentito fino a oggi sui tarocchi, sono senz’altro corbellerie. Niente a che vedere con egizi, divinazione, maghi, fattucchiere, destino e futuro.

     Carte per giocare a carte son nate e tali rimangono, mirabile evoluzione delle Naibi: allora era un gioco didattico attraverso il quale i ricchi del medioevo sfruttavano la memoria visiva.
I tarocchi nacquero verosimilmente dalla combinazione delle Naibi - trasformatesi in seguito nei 22 Trionfi e delle carte numerali - dall’uno al dieci - con le loro figure di Re, Regina, Cavaliere e Fantesca (oggi Fante), che si ritrovano nelle carte spagnole in quattro serie: coppe, danari, spade, bastoni: simboli, nell’ordine, del clero, dei commercianti, della nobiltà e dei contadini; per un totale di 78 carte.

     Tutto il resto è ciarpame pseudo filosofico, sviluppatosi nel secolo diciannovesimo, dove nei tarocchi vi fu chi - come Court de Gebelin, nel volume VIII della sua opera Monde Primitiv (nel 1781)- vi ha voluto scoprire il linguaggio geroglifico universale; o come più tardi Eliphas Lévi - in Dogme e Rituel de la Haute Magie - ne interpretò ogni dettaglio ed il colore di ogni dettaglio in chiave cabalistica (non dandosi pensiero che, quando germogliarono i tarocchi, la cultura delle corti europee ignorava affatto la Q’abalha) e dove tutto ha un significato arcano e iniziatico, consentendo, a suo dire, la decifrazione dei tesori della saggezza della tradizione alchemica. Così divenne una moda suggerire la possibilità che il sapere del mondo potesse essere nascosto in una affascinante serie di immagini che soltanto l’iniziato era in grado di interpretare. Dunque carte da gioco, che sì hanno avuta in origine una funzione didattica, ma che, attraverso processi ben noti, hanno consolidate, nelle varianti locali, le loro caratteristiche iconografiche e strutturali nei vari giochi.

     Vuole la leggenda che il tarocco bolognese sia stato inventato da un nobile (Francesco Antelminelli Castracani Fibbia) rifugiatosi a Bologna alla corte dei Bentivogli agli albori del XV secolo: più verosimilmente fu in un qualche modo originato nella nostra città, oppure importato da Milano o Ferrara; comunque sia la sua storia, essa ci è nota già dalla fine di quel secolo.
Nel corso dei decenni il numero delle carte da 78 diminuì, perdendo le carte numerali dal due al cinque, e l’ordine di alcuni trionfi fu variato nelle serie: Mondo, Angelo, Sole, Luna, Stella, Torre, Diavolo, Morte, Traditore, Eremita, Fortuna, Forza, Giustizia, Virtù, Carro, Amore, I quattro Papi, Bégato, Matto. Era nato il Tarocchino bolognese, mazzo ridotto a 62 carte; come oggi. Nel 1725 i quattro Papi furono convertiti, con bolla del legato pontificio cardinale Tomaso Ruffo, negli attuali quattro Mori, mantenendo però l’Angelo come carta di valore più alto.

     Figlio e testimone della grande cultura della città petroniana, il Tarocchino bolognese supera tutti i giochi di carte, italiani, anglosassoni o di altrove, per la superba architettura delle tante combinazioni realizzabili; per la strategia quasi militare del gioco; per la complessità del computo dei punteggi: è perciò, a ragione, "il più bello dei giochi".

     Il gioco moderno deriva, in pratica, dalla Partitaccia - ossia una versione "leggera" della originaria Partita a tutt'andare, che prevedeva poste in danaro, già giocata a partire dal secolo XVIII, quando il Tarocchino bolognese aveva ormai da tempo consolidata la sua forma definitiva identica all'odierna; il tessuto del gioco è il medesimo, sono sparite le fasi di apertura con rifiuto e rilancio, l'attribuzione dei premi di particolari situazioni di gioco e soprattutto è sparita la comunicazione verbale tra i giocatori ed i suoi pittoreschi termini.

     Simile - non ci si illuda - al tressette ed al  bridge, dove lo scopo è fare il maggior numero di prese, è anch’esso un gioco di risposta al palo, con semi classici latini - Danari, Coppe, Spade, Bastoni - di 10 carte ciascuno tra figure e numerali e con gradi gerarchici diversi tra coppie di semi (alla stregua dell’antico Dasavatara indiano) più un quinto seme, i Trionfi, 21 carte con caratteristiche di presa simili a quelle della biscola ed un Matto che non va propriamente giocato, ma “coperto”. Lo scopo del gioco é qui di realizzare il maggior numero di combinazioni possibili e di sabotarne la composizione agli avversari, mirando a conquistare determinate carte e proteggerne altre vulnerabili ed ambite dal nemico; per certi versi si può assimilare la strategia del gioco a quella degli scacchi, servono colpo d’occhio, memoria, astuzia, abilità e spirito di sacrificio.

     Si può giocare la versione classica, che impegna quattro giocatori nell’Ottocento oppure nelle Quattro Scartate, ma anche il combattivo Terziglio in tre; in due si gioca a Centocinquanta e a Millone. Volendo far cagnara, in cinque e anche in sei, niente di meglio della chiassosa Mattazza; se poi si è desolatamente soli si fa un bel solitario... Ce n’è per tutte le compagnie, ma non s’impara in una sera; richiede attenzione e passione, un po’ come tutte le cose belle e difficili che danno sapore al nostro vivere.

(maurizio barilli)


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